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20 Luglio 2016
Hackability, l’esperienza degli studenti
Nell’ultimo approfondimento sul format che lega disabilità e tecnologie abbiamo intervistato chi ha progettato e realizzato i prototipi di ausili
Andrea Di Salvo
Dopo gli articoli sul progetto e l’apporto del Politecnico, concludiamo questo focus su Hackability – format che fa incontrare persone con disabilità e maker, ovvero appassionati di elettronica, software e stampanti 3D – dando voce ad alcuni studenti che hanno lavorato con ragazzi disabili all’interno del corso Tecnologie per la disabilità.
I prototipi di ausili, presentati lo scorso 8 giugno in ateneo, erano molto vari e tutti con soluzioni interessanti e pratiche. Di tutti i partecipanti abbiamo scelto il gruppo che ha lavorato con Martina, una ragazzina di 9 anni con Sma (atrofia muscolare spinale). Questa malattia non le permette di avere il pieno controllo dei suoi muscoli e la forza che riesce ad applicare è quasi nulla. La problematica che gli studenti hanno dovuto affrontare è stata dunque quella di riuscire in qualche modo a far riprendere la mobilità del braccio destro di Martina, che quando era piccola riusciva a muovere.
La struttura realizzata è un braccio meccanico che, portato ad altezza di lavoro, può compiere due movimenti principali in modo fluido. Frutto di uno studio teorico e dell’analisi di più soluzioni per risolvere al meglio il suo problema, permette il movimento quasi autonomo di braccio e spalla. A fine presentazione abbiamo avvicinato il gruppo per farci dire qualcosa di più su questa loro esperienza.
Perché hai scelto questo corso?
Diego, 20 anni, studente di ingegneria elettronica: «L’ho scelto per un’esperienza personale in famiglia, con mia sorella. Per di più, sapendo del costo dei vari sussidi medici, ho pensato che questa attività avrebbe potuto dare tanto a qualcuno: noi siamo andati ad aiutare una ragazzina, ma in questo caso non abbiamo aiutato solo lei, perché mettendo tutto in open source e open hardware, ne aiutiamo molti. Poi l’ho scelto anche per l’esperienza di lavoro di gruppo, per quello che poteva darmi».
Che cosa ti aspettavi prima di fare il corso?
Anisia, 20 anni, ingegneria biomedica: «Diciamo che quando mi sono iscritta a questo corso pensavo di dover studiare i vari tipi di disabilità, come ci si approccia a ciascuno ed eventuali soluzioni da applicare in un caso o nell’altro. A prescindere comunque dal progetto che poi ho fatto, questo credito libero mi ha subito entusiasmata perché il mio obbiettivo è quello di realizzare protesi, quindi di lavorare in questo mondo. Questa esperienza mi dava proprio un’apertura mentale tale da poter operare in modo consapevole: non avevo solo la possibilità di studiare a livello teorico, ma anche di applicare le nostre conoscenze e di potere sbattere la testa contro un progetto finché non funziona. Secondo me è una delle opportunità migliori che un corso possa dare».
Una volta finito questo corso, che cosa ti è rimasto?
Giorgia, 21 anni, ingegneria biomedica: «Alla fine di questa esperienza sono soddisfatta perché sono riuscita a lavorare molto bene con gli altri ragazzi e abbiamo davvero un team molto unito, sono contenta di aver trovato delle persone così al mio fianco. Soprattutto sono contenta di aver aiutato in qualche modo Martina nei suoi movimenti. Ad esempio, lei gioca spesso con i suoi genitori ai giochi da tavolo. Quindi fare una struttura che lo renda possibile, che la aiuti in questo, è una grande cosa secondo me. Poi penso che sia anche una cosa che ci servirà in futuro, soprattutto a noi che facciamo biomedica».
Che rapporto avete avuto con Martina, come lo avete gestito?
Maurizio, 24 anni, ingegneria biomedica: «Il nostro rapporto è stato per lo più con i genitori di Martina. Sono stati molto disponibili nel parlare con noi e nell’esporci tutte le problematiche e soprattutto nell’indirizzarci in ciò che doveva essere il nostro progetto. Purtroppo Martina risulta un po’ difficile da raggiungere perché non abita qui a Torino, ma a Villafranca. Inoltre i genitori lavorano e per noi con i treni non era pratico, ma comunque grazie anche ai social network, che sono stati utilizzati nella maniera con cui dovrebbero essere utilizzati, abbiamo avuto un ottimo resoconto dai genitori, i quali ci hanno molto motivati nell’andare avanti con questo progetto. È stata veramente una grande esperienza».
Secondo te quanto sono necessari corsi di questo tipo all’interno dei dipartimenti universitari? Li consiglieresti a un altro studente?
Luca, 19 anni, ingegneria biomedica: «Dipende da come uno “assorbe” il corso. Mi spiego: se uno è interessato, se gli piace il corso, se lo sfrutta al massimo, allora è una formazione che davvero ti può cambiare, un’esperienza che ti dà qualcosa in più. Magari non ti insegna tutto, ma ti insegna a imparare, ti insegna che passare dalla teoria alla pratica è un mondo enorme, qualcosa che magari tu sminuivi e quindi un domani ti prepara a farlo più spesso, a farlo più frequentemente, a farlo meglio».